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1.1 Cinema come immagini in movimento

Oltre cento anni fa le prime proiezioni pubbliche di immagini in movimento destavano grande stupore e apparivano magie meravigliose, come accadeva per tutte le tecnologie all’epoca ignote.

Il cinema ha dovuto opporre una lunga resistenza a chi si opponeva al nuovo mezzo, in principio mal visto perché nella riproduzione delle loro azioni i soggetti, senza più colore né suono, apparivano come ombre.

Le innovazioni tecnologiche successive hanno poi risolto in due momenti diversi il problema della mancanza di sonoro e di colore, sconvolgendo ogni volta non solo le modalità di produzione, ma anche il linguaggio dei film, e più in generale, il senso stesso del fare cinema.

Oggi il cinema, guadagnato ormai il grado di settima arte, permette agli autori la codificazione di idee articolate in immagini in movimento. Il risultato è spesso assai lontano dal cinema delle origini, e l'unico elemento in comune emerge dal fatto che, in entrambi i casi, si tratta di immagini in movimento che raccontano o descrivono.

Numerose esperienze precinematografiche come il fenachistiscopio, il praxinoscopio o il cinetoscopio, rientrano tutte in questa definizione. Tali esperimenti con le immagini però rimasero sempre relegati al ruolo di intrattenimento per i ceti inferiori della popolazione, per gli analfabeti e per chi risultava incapace di godere del piacere intellettuale di una narrazione elaborata.

Così, gli spettatori delle prime immagini in movimento avevano a che fare perlopiù con divertenti figure danzanti e donne disinibite.

Il cinema, nella sua evoluzione, si è allontanato molto da questo stadio primordiale, che però, per un bizzarro ciclo storico, si ripresenta oggi sotto diverse forme, come quella delle GIF animate, le immagini cicliche dei siti web, e i navigatori di oggi, come gli spettatori dell’ottocentesco zoetrope hanno a che fare con pupazzi ballerini e signorine ammiccanti.

 

Lo scrittore francese René Barjavel, conosciuto soprattutto per i suoi romanzi di fantascienza, ripercorre così la nascita di uno dei dispositivi precinematografici:

Un giorno radioso dell'estate del 1829, un giovane professore belga, Joseph Plateau, la testa orgogliosamente alzata verso il sole, fissò il re del cielo, occhi negli occhi, per 25 secondi.
La retina bruciata, dovette rimanere per settimane chiuso in una camera buia per divenire, qualche anno piu tardi, completamente cieco. Ma, nel frattempo, aveva inventato il fenakistoscopio, primo antenato del cinema. Questo strumento dal nome spinoso era un semplice disco di cartone. Su una faccia era disegnata una serie di silhouette rappresentanti le diverse fasi del movimento di un soggetto: acrobata, sciatore, danzatrice. Delle fessure erano intagliate in questo disco. Occorreva porsi davanti a uno specchio, il lato del disco con i disegni di fronte allo specchio, far girare il disco, guardare lo scorrere delle immagini attraverso le fessure. Si vedeva allora lo sciatore sciare, la danzatrice ballare e l'acrobata fare la ruota. Il fenakistoscopio metteva così in evidenza la persistenza delle immagini sulla retina, persistenza che Plateau aveva provato a spese della vista, e la cui dimostrazione avrebbe permesso tutte le ricerche che, sessant'anni dopo, avrebbero portato al cinematografo dei fratelli Lumière.[1]

Lo studio e la comprensione del fenomeno della persistenza retinica sono, secondo i due teorici del cinema americani David Bordwell e Kristin Thompson, il primo di cinque presupposti tecnici alla nascita del cinema.[2]

Nella loro Storia del cinema e dei film essi ricordano come i primissimi film fossero perlopiù vedute e panorami, non opere di finzione. L'azienda dei fratelli Lumière si era specializzata nella realizzazione di questo tipo di prodotto, tranche de vie, cinema d'attualità più vicino alla cronaca che alla narrazione. Saranno poi Georges Méliès, la Pathé Frères ed i loro concorrenti coevi ad introdurre sul mercato un grande assortimento di performance teatrali e acrobatiche filmate, gag e storielle. Le potenzialità degli strumenti di riproduzione delle immagini stimolavano l'impulso produttivo degli autori del tempo, sia quando mettevano in scena storie di finzione, sia che riportassero fatti di cronaca.

 

Fin dall’inizio si è manifestato negli spettatori il fenomeno della sospensione dell'incredulità, per cui ciò che veniva visto nel buio della sala o della cabina di visione era considerato sempre reale ed esistente, e non soltanto verosimile. L'immagine dell'arrivo di un treno faceva quindi temere agli spettatori per la propria incolumità.

Il cinema era già immagini in movimento che raccontavano una storia.

 

Lo studioso di cinema Francesco Casetti sottolinea l'aspetto narrativo della produzione di immagini:

[...] se si rimonta alle origini del mezzo si vede che esso ha scelto fin da subito di presentarsi come un dispositivo fabulatorio più che come una macchina ottica, di "raccontare" il reale più che di documentarlo. L'effetto è di fare del cinema qualcosa di "naturalmente" narrativo: un luogo in cui questa specifica dimensione si confonde con il tutto.[3]

Oltre alla connessione in chiave narratologica, è possibile valutare l'oggetto cinema da una prospettiva diversa, e isolare così il vero elemento caratterizzante il cinema in tutte le sue forme: il movimento delle immagini.

Thomas Edison e William Dickson opposero al cinématographe Lumière (il cui nome significa letteralmente scrittura del movimento) il proprio strumento di proiezione, chiamandolo vitascope (visione della vita).[4]

Presumibilmente, per lo spettatore le due tecnologie non erano differenti: in entrambi i casi, egli osservava delle immagini muoversi sullo schermo.

A tal proposito, è esplicativo un brano di Lev Manovich, professore di Arti visive presso la University of California:

 

Spettatori e critici assimilano il cinema all’arte della narrazione e quindi i nuovi mezzi digitali sono visti come lo strumento capace di rinnovare il modo in cui il cinema racconta storie. [...] Come testimoniato dai nomi originali (kinetoscopio, cinematografo, moving pictures) il cinema è stato definito, sin dalla nascita, come arte del movimento, l’arte che per prima era riuscita a creare una illusione efficace della realtà dinamica. Se studiamo il cinema in questi termini (e non come l’arte della narrazione audiovisiva, né come l’arte delle immagini proiettate, né tantomeno come arte dello spettacolo di massa), balza subito agli occhi la continuità che lo lega alle tecniche precedenti di costruzione e montaggio delle immagini in movimento.[5]

La correlazione evidenziata da Manovich vale proiettandosi in avanti nel tempo, e oltre alla ripresa dal vero, arriva a toccare i più recenti sistemi per la produzione di immagini in movimento, edificati sulle capacità dell'elaborazione informatica. Possono allora essere considerate cinema, perché immagini in movimento, le tecniche di ripresa a metà strada tra il passo uno e la ripresa dal vero, come la pixilation; l'animazione, con la tecnica detta machinima, di figure virtuali estrapolate dai videogame per cui erano state realizzate; i cortometraggi animati per il web realizzati con tecnologia Flash, simili alle prime animazioni cutout, di carta ritagliata ed animata a passo uno, una tecnica in cui fu maestro l'italiano Lele Luzzati.

 

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